venerdì 25 novembre 2011

Violenza sulle donne / Appello per Adama: una storia, molte violenze

da Vincenza Perilli

In occasione del 25 novembre le iniziative di denuncia delle violenze contro le donne si moltiplicano, ottenendo un'effimera - quanto inutile - visibilità anche su quei mezzi di informazione ordinariamente silenziosi su queste questioni (tranne, beninteso, quando la "notizia" può essere proficuamente strumentalizzata e messa al servizio di politiche razziste e sessiste, sicuritarie e di controllo). Per questo, forse, avremmo evitato in questa giornata di scriverne se non ci fosse giunto da Paola Rudan - che ringraziamo - l'invito a far circolare l'appello di Migranda / Trama di Terre per Adama, donna migrante rinchiusa da fine agosto nel CIE di Bologna: aveva chiamato i carabinieri di Forlì dopo essere stata derubata, picchiata, stuprata e ferita alla gola con un coltello dal suo ex-compagno. L’unica risposta che Adama ha ricevuto è stata la detenzione nel buco nero di un centro di identificazione e di espulsione nel quale potrebbe restare ancora per mesi. E la storia di Adama non è una storia isolata: il 13 dicembre, a Bruxelles, si svolgerà un convegno internazionale del Picum - un organismo che si occupa di migranti "senza documenti"* - sulla situazione difficilissima vissuta dalle donne migranti considerate "clandestine" in Europa. Chi mi ha inoltrato l'appello per Adama scrive qualcosa che condivido pienamente: "Non vogliamo essere le rappresentanti o le tutrici di una vittima, ma l'amplificatore di una donna che sta lottando e che non ha altro modo di far sentire la sua voce". Vi invitiamo dunque a firmare e far circolare l'appello che trovate nel sito di Migranda, affinché Adama possa "riprendere in mano la propria vita" e noi tutte la nostra.

Marginalia

APPELLO PER ADAMA: UNA STORIA, MOLTE VIOLENZE

Le adesioni all’appello arrivano più veloci dei nostri aggiornamenti, ma continueremo a pubblicarle. In questa pagina (Appello per Adama) pubblichiamo anche le tante parole di sostegno per Adama, che arrivano con le ancora più numerose adesioni all’appello che chiede la sua immediata liberazione dal CIE di Bologna. Cercheremo di aggiornare questa pagina continuamente, perché la voce di Adama sia amplificata in ogni momento.
Pubblichiamo questo appello in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Per adesioni scrivete a migranda2011@gmail.com
Adama è una donna e una migrante. Mentre scriviamo, Adama è rinchiusa nel CIE di Bologna. È rinchiusa in via Mattei dal 26 agosto, quando ha chiamato i carabinieri di Forlì dopo essere stata derubata, picchiata, stuprata e ferita alla gola con un coltello dal suo ex-compagno. Le istituzioni hanno risposto alla sua richiesta di aiuto con la detenzione amministrativa riservata ai migranti che non hanno un regolare permesso di soggiorno. La sua storia non ha avuto alcuna importanza per loro. La sua storia – che racconta di una doppia violenza subita come donna e come migrante – ha molta importanza per noi.
Secondo la legge Bossi-Fini Adama è arrivata in Italia illegalmente. Per noi è arrivata in Italia coraggiosamente, per dare ai propri figli rimasti in Senegal una vita più dignitosa. Ha trovato lavoro e una casa tramite lo stesso uomo che prima l’ha aiutata e protetta, diventando il suo compagno, e si è poi trasformato in un aguzzino. Un uomo abile a usare la legge Bossi-Fini come ricatto. Per quattro anni, quest’uomo ha minacciato Adama di denunciarla e farla espellere dal paese se lei non avesse accettato ogni suo arbitrio. Per quattro anni l’ha derubata di parte del suo salario, usando la clandestinità di Adama come arma in suo potere.
Quando Adama ha dovuto rivolgersi alle forze dell’ordine, l’unica risposta è stata la detenzione nel buco nero di un centro di identificazione e di espulsione nel quale potrebbe restare ancora per mesi. L’avvocato di Adama ha presentato il 16 settembre una richiesta di entrare nel CIE accompagnato da medici e da un interprete, affinché le sue condizioni di salute fossero accertate e la sua denuncia per la violenza subita fosse raccolta. La Prefettura di Bologna ha autorizzato l’ingresso dei medici e dell’interprete il 25 ottobre. È trascorso più di un mese prima che Adama potesse finalmente denunciare il suo aggressore, e non sappiamo quanto tempo occorrerà perché possa riottenere la libertà.
Sappiamo però che ogni giorno è un giorno di troppo. Sappiamo che la violenza che Adama ha subito, come donna e come migrante, riguarda tutte le donne e non è perciò possibile lasciar trascorrere un momento di più. Il CIE è solo l’espressione più feroce e violenta di una legge, la Bossi-Fini, che impone il silenzio e che trasforma donne coraggiose in vittime impotenti.
Noi donne non possiamo tacere mentre Adama sta portando avanti questa battaglia. Per questo facciamo appello a tutti i collettivi, le associazioni, le istituzioni, affinché chiedano la sua immediata liberazione dal CIE e la concessione di un permesso di soggiorno che le consenta di riprendere in mano la propria vita.




mercoledì 23 novembre 2011

Dal Sito dell'amica Vincenza Perilli:


Facciamo Breccia pubblica la traduzione di un appello di Palestinian Queers for Boycott, Divestment & Sanctions, in cui si chiede all'IGLYO - uno dei principali network di associazioni GLBT internazionali - di non essere complice delle politiche di pinkwashing israeliane svolgendo - senza prendere in questo modo posizione - la propria assemblea generale, prevista per dicembre, a Tel Aviv. L'invito, sempre sottinteso quando si pubblicano appelli di questo tipo, è di far circolare il più largamente possibile.

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Chiamata all’azione: Di’ all’IGLYO di stare fuori da Israele

Pubblichiamo questo appello di attivisti e attiviste queer palestinesi che chiede all'IGLYO di non essere complice delle politiche di pinkwashing israeliane.

Cari gruppi, collettivi, attiviste e attivisti LGBTQ,
Come queer palestinesi appartenenti a diversi collettivi - alQaws for  Sexual & Gender Diversity in Palestinian society, Aswat — Palestinian  Gay Women, and PQBDS (Palestinian Queers for Boycott Divestment and  Sanctions) - vi scriviamo per esprimere il nostro sconforto per la  decisione dall’ International Gay and Lesbian Youth Organization[IGLYO]  di organizzare l’Assemblea Generale per Dicembre 2011 a Tel Avivin  Israel. Anche dopo averci contattati e dopo aver espresso la nostra più  profonda preoccupazione rispetto alle implicazioni problematiche e  politiche dell’organizzazione di questa conferenza, IGLYO ha pubblicato  un “lettera aperta – 2011 GA” dove viene sottolineato che non sono per  nulla contenti di rimettere in discussione la loro decisione e che anzi  difendono le loro posizioni;  ingannando, quindi, i membri dei gruppi  LGBT all’interno di un processo di normalizzazione e provvedendoa  coprire l’apartheid di Israele e l’oppressione della popolazione  Palestinese.  IGLYO non ha solo deciso di tenere la loro General  
Assembly conference in Tel Aviv, ma ha accettato i soldi del governo  israeliano partecipando in una più ampia campagna nel dare una nuova  immagine ad Israele “brand Israel” e nel crimine del pinkwashing .   Stiamo perciò chiedendo supporto nel comunicare a IGLYO perchéla loro  azione è iniqua e indecente, per un’organizzazione come la loro che  dovrebbe battersi a fianco delle persone queer o dei diritti umani in  più larga misura. Le politiche di Israele e l’occupazione non distinguono persone queer  da etero. Tutta la popolazione palestinese – queer ed etero – deve  affrontare gli effetti del muro dell’apartheid, dei checkpoint, degli insediamenti illegali e della violenza dei coloni: nessuno menziona che vivere sotto occupazione militare ti toglie qualsiasi diritto come  abitante di quella terra. Tutte le persone a Gaza, inclusi i queer,  vivono sotto un assedio illegale e medievale - e di fatto Gaza non è  altro che una prigione a cielo aperto. E come tutte e tutti le/gli abitanti di Israele, le persone queer sono soggette a discriminazioni di  leggi e di educazione che attraversano tutta la loro vite sia  nell’ambito privato che pubblico.
Nonostante tutta la società civile e le organizzazioni non dovrebbero necessariamente essere responsabili delle azioni dei loro governi, Israeli Gay Youth (IGY), il gruppo che lavora all’organizzazionedella conferenza, è legata direttamente alla propaganda del governo di Israele e alla campagna pinkwashing. Per prima cosa, è una delle più grandi organizzazioni nel paese, IGY lavora a stretto contatto con l’esercito militare israeliano - Israeli Defense Force (IDF) -reclutamdo giovani queer nell’esercito – lo stesso esercito che occupa, isolando e chiudendo con il muro e i checkpoints persone queer e etero senza distinzione sia in West Bank che a Gaza. IGY, quindi, non solo è un’organizzazione gay ma è fautore dell’omonazionalismo e di quelle stesse strutture dello stato di Israele che i/le queer palestinesi combattono. In secondo luogo, IGY è finanziato ufficialmente da 15 differenti comuni, in più viola le indicazioni della campagna BDS e mostra piena complicità con le strutture statali di Isarele.La decisione di IGLYO di tenere l’assemblea generale a Tel Aviv in Israele finanziata dallo stato di Israele non solo viola la chiamata per la campagna di boicottaggio - Boycott, Divestment, and Sanctions - una campagna che ha lo scopo di far pressione ad Israele per la fine dell’occupazione delle terre palestinesi emulando l’efficace tatto anti-apartheid ma partecipando attivamente al pinkwashing di Israele che mira a rappresentare Israele come il paradiso per i queer spostando quindi l’attenzione fuori dai numerosi crimini contro la popolazione palestinese. Con questa campagna multi- millionaria  non si dà altro che un altro “successo”, IGLYO aiuta le violazioni di Israele della legge internazionale e supporta il predominio bianco includendo l’occupazione illegale e la politica razzista.
Come un’organizzazione la cui missione è quella “dicombattere tutte le forme di esclusione, di discriminazione e di persecuzione, è demoralizzante che IGLYO stia ignorando l’oppressione della popolazione palestinese, sia queer che etero, nonostante il fatto che la commissione dell’ IGLYO sia ben consapevole della sofferenza della popolazione palestinese sotto l’occupazione israeliana. Sembra proprio che l’esclusione, la discriminazione e la persecuzione sia accettabile quando va a colpire i corpi della popolazione palestinese.Per questo, noi collettivi queer palestinesi abbiamo l’urgenza che l’IGLYO trasferisca la sua Assemblea Generale fuori dallo stato di Israele.
Perciò chiediamo il vostro supporto alla nostra chiamata sulla questione dell’IGLYO seguendo questi punti:

·        Chiedi a IGLYO di trasferire l’Assemblea Generale fuori da Israele firmando questa lettera o scrivendo una tua lettera alla commissione dei direttori dell’IGLYO. Manda una lettera a: Board@IGLYO.com
·        Supporta la nostra “chiamata all’azione”– manda il nome del tuo collettivo, gruppo organizzazione a: info@pqbds.com
·        Visita il sito della IGLYO e lascia un commento alla loro “Lettera aperta – 2011 GA” ‘Open Letter – 2011 GA‘ . Comunica il perché loro dovrebbero trasferire la conferenza fuori da Israele.
·        Se tu sei una o un giovane europeo e/o uno studente queer, potresti non sapere che sei forse un membro della IGLYO. Visita la nostra pagina facebook e cerca nella lista delle organizzazioni i membri dell’IGLYO. Se trovi che sei membro di un’organizzazione-membro, non esitare ad inviare una lettera in cui si chiede l’urgenza di trasferire la conferenza in un altro luogo.
·        Diffondi il più possibile questo comunicato nel tuo sito / blog e invialo a tutte le persone LGBTQ, collettivi, gruppi.
·        Visita il nostro sito e tieniti aggiornato/a riguardo la campagna, contattaci se hai domande. Scrivici a: info@pqbds.com
Speriamo che con il tuo supporto possiamo far diventare IGLYO veramente un’organizzazione che rispetta i diritti delle persone queer includendo anche le/i palestinesi e fermare questo gioco che la fa diventare una pedina nel tentativo di Israele di promuovere questa finta apertura alle politiche queer ai costi della popolazione palestinese.
Grazie,
Palestinian Queer Groups: alQaws for Sexual & Gender Diversity in Palestinian Society
Aswat – Palestinian Gay Women
Palestinian Queers for BDS


Facciamo Breccia



 

lunedì 21 novembre 2011

Rapporto sulle donne palestinesi detenute.

Sono madri, sorelle, figlie o mogli dell'occupazione  e se anche sono una minoranza nelle carceri israeliani sono piene di forza per dire al mondo che sono capaci di lottare per i loro diritti e la libertà del loro popolo con la stessa intensità dei loro genitori, fratelli, figli o coniugi.

Anche se l'accordo tra Hamas e Israele prevede la liberazione  di tutti i prigionieri politici, senza eccezione alcuna, per quanto riguarda il genere femminile la realtà è molto diversa. Nove detenute sono state lasciate fuori dalla lista. Continuano a rimanere in prigione, settimane dopo la liberazione del primo lotto di prigionieri in attesa di essere tra i 550 nomi di detenuti e detenute ancora da rilasciare, che concluderà l'accordo del mese scorso.

Cinque di esse,Muna Qa'dan, Bushra al-Taweel, Haniya Naser, Fida Abu Sanina and Rania Abu Sabeh,arrestate tra giugno  e settembre  di quest'anno, sono rimaste nel periodo di interrogatorio, durante la liberazione dei 477 prigionieri politici palestinesi dello scorso ottobre. Questo periodo di interrogatorio, secondo le normative militari israeliane può durare fino a 180 giorni senza archiviare le accuse contro l'imputato.

Delle quattro restanti prigioniere, Lina Jarbuni ha la condanna più lunga. Fu arrestata nell'aprile del 2002 e condannata a diciasette anni di prigione accusata di aver aiutato una cellula di Hamas a Jenin.Dopo di lei c'è Wurud Qassem condannata a sei anni per avere sostenuto la resistenza attraverso il trasporto di materiale esplosivo dalla Cisgiordania a Ra' nana. Chiudono la lista delle prigioniere non liberate Khadija Habash e Suad an-Nazzal con pene rispettivamente di tre  e due anni.

Anche se durante la Dichiarazione di Vienna sulla Criminalità e la Giustizia nel 2000, si accettò unanimamente che le donne detenute necessitano di particolare attenzione da parte delle Nazioni Unite e di altre entità governative e professionali di varia natura, le prigioniere palestinesi subiscono nelle carceri israeliani abusi, vessazioni e continue violazioni dei diritti umani.

In Israele vi sono due carceri per le donne: la prigione di Hasharon e di Damon. La prima  si trova a Tel Aviv e dispone delle sezioni 11 e 12 per le donne; l'area 13 è riservata alle prigioniere in isolamento. Nel giugno del 2008 tutte le detenute della zona 11 sono state trasferite a Damon. Damon è un'ex fabbrica di tabacco ubicata a nord di Israele nei pressi di Haifa. Fin dal suo primo utilizzo, gli impianti furono  specificatamente progettati per mantenere l'umidità  e non ospitare gli esseri umani.

In queste carceri si commettono ripetute violazioni dei diritti fondamentali delle prigioniere palestinesi. Una di queste denunciata in numerose occasioni  da Addameer - organizzazione palestinese che difende i diritti dei prigionieri - è l'assenza di cure mediche. Le sue relazioni trimestrali e le numerose interviste realizzate alle prigioniere rilevano che in nessuno dei due carceri esistono cure mediche, ventiquattro ore al giorno. Il medico - che in nessun caso parla arabo - termina il suo turno alle quattro del pomeriggio e resta solamente l'infermiera per prescrivere antidolorifici. Se le detenute hanno bisogno di uno specialista,devono ottenere un permesso ufficiale da parte del medico che lo rilascia solamente quando la malattia ha raggiunto limiti molto gravi. In questo caso, le donne ricevono le cure in ospedale, mani e piedi legati, e molte di loro dopo questa esperienza rifiutano una successiva cura medica.

Le visite ginecologiche sono scarse e in tanti casi inesistenti, ed hanno a capo uno specialista maschio, nonostante che le visite ginecologiche e la scelta del sesso del medico durante la detenzione sono un diritto e una norma in Israele. La situazione si aggrava se la detenuta è incinta, dato che non ricevono una particolare attenzione e soffrono di malnutrizione, che arreca gravi problemi al feto. Ugualmente succede con le prigioniere che necessitano di cure ospedaliere, le recluse palestinesi che stanno per partorire sono portate in ospedale incatenate mani e piedi e dopo il parto immediatamente vengono incatenate,violando così un'altra volta, i loro diritti.

Oltre alla carenza di cure mediche,le detenute vivono in isolamento. Le visite dei familiari sono l'unico legame che le mantiene unite al mondo esterno e nella maggior parte dei casi  questi incontri sono limitati se non addirittura completamente eliminati, anche se le Nazioni Unite, stabiliscono nel paragrafo delle Regole Minime per il trattamento dei Prigionieri all'articolo 17 che ai prigionieri deve essere permesso, sotto supervisione, di comunicare con i loro familiari e amici intimi a mezzo corrispondenza e visite regolari.

I familiari delle prigioniere palestinesi non possono visitarle liberamente e necessitano di un  permesso speciale da parte delle autorità penitenziarie, quasi mai concesso, praticamente impossibile per uomini  di età compresa tra i sedici e i quarantacinque anni.A sua volta,  ad ogni palestinese che sia stato arrestato da Israele è categoricamente vietato visitare un parente in carcere. Considerando che dal 1967, 700.000 palestinesi sono stati arrestati la cifra ci mostra che almeno il trenta per cento della famiglia di una detenuta ha le visite vietate.

Se l'incontro avviene, tutto accade in un contesto violento e traumatico per entrambe le parti. I visitatori vengono anch'essi trattati come criminali. Gli si urla, vengono sottoposti a controllo completo dei loro beni e costretti ad aspettare per ore fuori dal carcere - senza contare il viaggio che hanno fatto dal luogo natale nei Territori occupati della Palestina fino al carcere, un viaggio che va dalle quattordici alle diciassette ore. Il contatto fisico è permesso solamente tra la madre e i  figli sotto i sei anni. In tutti gli altri casi, le riunioni non durano più di 45 minuti fatti  attraverso il vetro e un telefono rotto, per cui entrambi le parti devono urlare per sentirsi.

Anche l'istruzione viene utilizzata come arma di punizione in prigione. Secondo il dittato dell'UNESCO, tutti i prigionieri hanno il diritto di partecipare alle attività culturali e ricevere un'istruzione allo scopo di sviluppare il loro intelletto. Le amministrazioni di entrambi i carceri ovviano questo articolo e limitano l'accesso in questo settore. L'istruzione universitaria è un privilegio ed è soggetta a tanti differenti criteri, come la buona condotta della detenuta, la possibilità di possedere denaro per pagarsi le tasse universitarie,la scelta della carriera  e delle assegnazioni all'interno degli insegnamenti consentiti dalle autorità penitenziarie israeliane -  carriere come medicina, fisica o chimica sono categoricamente proibite - l'unico tipo di istruzione universitaria è resa possibile attraverso la corrispondenza in ebraico con l'Università Aperta di Israele. Inoltre. il penitenziario si riserva il diritto di annullare  e revocare il diritto allo studio in qualunque momento sulla base delle ragioni di sicurezza.

La stampa e la televisione sono controllate. Le televisioni che si trovano nelle prigioni sono state concesse dalle Ong o dai familiari delle detenute. Nonostante ciò i funzionari delle carceri scelgono la programmazione e il risultato sono catene israeliane in ebraico  o russo,anche se ci sono cinque canali satellitari in lingua araba. Lo stesso succede con la stampa,due giornali distribuiti in ebraico,Maariv e Yediot Aharonot e soltanto una volta alla settimana i prigionieri possono  leggere la stampa araba, grazie alla distribuzione di Al-Quds.

La situazione nelle carceri israeliani è insostenibile  e il trattamento delle prigioniere palestinesi inaccettabile. La mancanza di assistenza sanitaria, istruzione  e il contatto con le loro famiglie non solamente trasforma il penitenziario in un luogo ostile in cui vengono costantemente violati i diritti umani delle prigioniere , ma anche rende enormemente difficile la possibilità di reinserimento sociale di queste donne.

Centro di Informazione Alternativa  (AIC),Gerusalemme.

Alternative news

( Traduzione di Anita Lia Di Peri Silviano)